
Perché il ricco è sempre stronzo nelle storie?
Attenzione, ti avverto, alla fine di questo articolo potresti cambiare idea sui ricchi.
Ci insegnano fin da piccoli che chi ha il potere è il cattivo. Ha cavalli, servi, oro e un unico scopo: rovinare la vita alla ragazza onesta o all’eroe di turno. E noi applaudiamo quando cade, perché nel copione il ricco deve pagare.
Ma che succede se quel ricco non è uno stronzo? Se non vuole prendere, ma capire? Se ama senza comprare? In queste righe smonteremo una leggenda popolare e un romanzo che tutti abbiamo studiato, scopriremo come la Bibbia, il cinema e i fumetti usano lo stesso schema, e infine lo ribalteremo. Perché la vera rivoluzione oggi non è abbattere il potere. È riscriverlo.
La leggenda di Santa Lucia
In Irpinia si racconta ancora, come si raccontano le cose che servono più a vivere che a credere. Si dice che una volta ci fosse una ragazza bellissima, Lucia, e che un signore potente, innamorato dei suoi occhi, la volesse a tutti i costi. Lei no. Lui insiste minacciando lei e la sua famiglia. Lei, allora, si cava gli occhi e glieli dà. Lui scappa inorridito. Dio alla fine ridona gli occhi e la vista a Lucia.
È una leggenda, certo. Ma come tutte le leggende, non nasce per caso. Serve. Funziona. Rassicura. Racconta un mondo dove il potente è sempre il cattivo, il popolo è sempre la vittima, e il cielo alla fine aggiusta tutto.
Il signorotto di questa storia non ha nome, non ha volto, ma lo riconosci subito: è la figura su cui possiamo scaricare tutta la colpa. Rappresenta il potere che minaccia, che desidera troppo, che non capisce un no. E così la leggenda protegge chi la racconta: trasforma la paura in un racconto e il dolore in fede.
Ma quello che ci ha insegnato, lo ripetiamo ancora oggi, senza nemmeno accorgercene.
Il parallelo con I Promessi Sposi
Don Rodrigo non è il personaggio più profondo del romanzo di Manzoni. Ma è, senza dubbio, il più funzionale. Serve a incarnare uno schema semplice: il potente che abusa, la donna che resiste, il destino che punisce.
Ora prendiamo la leggenda di Santa Lucia così come viene raccontata in Irpinia. Cosa troviamo? Una ragazza bella e devota, promessa a Dio, che rifiuta le avances insistenti di un uomo ricco e influente. L’uomo reagisce con arroganza e violenza simbolica. Lei, per sfuggirgli, compie un gesto estremo: si cava gli occhi. Dio la salva e noi applaudiamo.
Lucia, nei Promessi Sposi, ha lo stesso ruolo. È pura, intoccabile, inseguita da un potente che non accetta il rifiuto. Anche lì il potere non ama, pretende. E anche lì la salvezza arriva dall’alto, mai dall’umanità.
Questo schema non è solo una trama: è un’abitudine mentale. Funziona perché ci rassicura. Il ricco è il cattivo, il povero è il buono, e tutto il resto si allinea. Ogni sfumatura sparisce. Ogni complessità viene archiviata.
Così, lo stereotipo diventa struttura. Non leggiamo più una storia: leggiamo il copione di quello che ci aspettiamo. E continuiamo a raccontarlo, con una certa soddisfazione. Perché ci mette al sicuro. Anche quando ci mente.
Il potente nella Bibbia – Lontano, cieco, irraggiungibile
Nei testi sacri il potere non ha bisogno di essere malvagio per fare danno. Basta che resti distante.
La parabola di Lazzaro è chiara: un mendicante giace alla porta di un uomo ricco, malato e affamato. Il ricco non lo caccia, non lo umilia. Semplicemente non lo vede.
Alla loro morte, Lazzaro sale in cielo. Il ricco precipita all’inferno. Fine della storia.
La Bibbia non demonizza il potere: lo isola. Lo mostra cieco, chiuso nel suo privilegio, incapace di accorgersi dell’altro. Il ricco non è punito per la cattiveria, ma per la sua indifferenza.
È da qui che nasce un’immagine potente e persistente: il potente come figura moralmente assente, inaccessibile, separata. Un colosso che non tocca terra.
Raccontare così il ricco, nelle parabole come nelle leggende, serve a dare forma alla paura del popolo. E al bisogno che, se la giustizia non arriva quaggiù, ci pensi Dio lassù.
Il ricco malvagio nella letteratura e nel cinema
Il ricco, nella maggior parte delle storie, non è un personaggio: è un bersaglio.
Lo si mette in scena con lo stesso scopo per cui in certi giochi si alza un pupazzo: per tirargli qualcosa.
Lo sa bene la letteratura: da Gatsby, con la sua tristezza dorata che schiaccia i sogni altrui, ai signori ben vestiti di Cime tempestose o Anna Karenina, il potere economico è quasi sempre la malattia di fondo.
Lo sa il cinema: Parasite, Joker, Titanic, Squid Game. Ovunque ci sia un ricco, è lì per sbagliare, per ignorare, per far soffrire. Lo spettatore applaude quando inciampa, crolla, affonda.
E in effetti, veder crollare un attico fa sempre più rumore di un tugurio che resiste.
Il ricco, da un punto di vista narrativo, è utile.
Funziona come colpevole.
Ci libera dalla fatica di guardare le sfumature.
E soprattutto ci regala un sollievo segreto:
“Io sono povero, ma almeno non sono lui.”
È un patto di comodo.
E infatti, lo si rinnova in ogni serie, romanzo, o saga di vendetta.
Tanto nessuno ci chiede di dubitare. Anzi, sarebbe sconveniente.
Perché ci piace odiare i ricchi – E perché non ci vergogniamo a farlo
A noi piace odiare i ricchi.
Non sempre, certo. Non in pubblico. Non se sono nostri amici, o se postano cose simpatiche su Instagram. Ma nelle storie sì. Nelle storie, ci viene benissimo. È un esercizio morale che ci fa sentire a posto con l’universo.
Ci piace vedere il ricco che cade. Ci piace ancora di più se cade in modo spettacolare: dalla nave, dalla torre, nel fango. Ci fa sentire giusti, vendicati, centrati.
Perché se lui è il cattivo, noi siamo di conseguenza i buoni. Senza fare troppa fatica.
La verità è che il cliché del ricco cattivo ci semplifica la vita.
Ci risparmia la domanda scomoda: “E se fossi io a sbagliare?”
Ci consola dal fallimento: “Lui ha tutto, ma è solo un mostro.”
Ci salva dal confronto: “Io non ho soldi, ma ho un cuore.”
E così, tra un romanzo, una serie e una leggenda, continuiamo a premere replay sullo stesso schema. Perché fa bene. Perché ci tiene al sicuro. Perché ci evita il rischio più grande: vedere un potente che non è cattivo. Uno che, magari, usa il potere per amare. Uno che ci costringerebbe a cambiare idea. O peggio: a cambiare noi stessi.
Dickens e Scrooge – Il ricco che si redime, come in un rito
La notte, per Charles Dickens, non era solo buio. Era un teatro.
E in quel teatro, la vigilia di Natale, si apre un varco.
Ebenezer Scrooge è il ricco come lo vuole la tradizione: avaro, solo, blindato nel suo palazzo e nella sua indifferenza. Ma qualcosa, quella notte, si incrina. Tre spiriti lo visitano. Non lo giudicano, lo mostrano. Gli mostrano ciò che è stato, ciò che è, e ciò che sarà.
E in quell’attraversamento — che non è solo narrativo ma rituale — il ricco si spezza. Ma non cade. Si trasforma.
Dickens non lo punisce. Non lo fa precipitare.
Lo salva.
E così rompe lo schema.
Per la prima volta, il potere si converte.
E non per colpa, ma per visione.
Il ricco non perde tutto: guadagna il mondo, riconoscendo ciò che prima ignorava.
E noi, lettori, siamo chiamati a qualcosa di più difficile dell’odio: la possibilità del perdono.
Paperon de’ Paperoni – Il ricco che sputa in terra e ama con le piume

Ci fu un tempo in cui i ricchi si facevano da soli.
Ci fu un tempo in cui erano anatre.
E una di loro, burbera come una porta arrugginita, più attaccata al suo deposito che a qualsiasi creatura vivente, si chiamava Zio Paperone.
Paperone non è Don Rodrigo. Non è Scrooge, anche se da Scrooge discende. È un ricco che odia gli sprechi, non gli altri. Ama i soldi perché li ha guadagnati uno a uno, spesso rischiando il becco.
Non compra l’amore, non affitta la bontà. Fa i conti. Sempre. Ma non si compra mai l’innocenza.
E quando si tratta di Paperino, Qui Quo Qua o del vecchio cuore ammaccato che ha sotto il gilet, sbuffa… ma cede.
Non è buono. Ma è giusto.
Non è tenero. Ma se ti salva, lo fa senza chiedere selfie.
E forse è questo il motivo per cui, tra tutti i ricchi raccontati, è l’unico che amiamo senza vergogna.
Perché è il solo che può dire “è mio” senza che suoni come una minaccia.
I ricchi giusti nella narrativa – Quando il potere non conquista, ma protegge
Esistono. Pochi, ma esistono. Ricchi che non usano il potere per possedere, ma per custodire. Personaggi che, pur potendo imporsi, scelgono di mettersi accanto. Mr. Darcy, per esempio, che non chiede amore con arroganza ma impara a meritarselo, e lo fa senza rumore, correggendo il proprio orgoglio con umanità. Jean Valjean, che da ricco sindaco non cerca vendetta né prestigio, ma salva in silezio vite, portando sulle spalle colpe non sue. Bruce Wayne, che potrebbe ignorare tutto e invece si sporca le mani per la sua città, nella solitudine del suo doppio. Nick Young, che abbandona la dinastia per rispetto e amore, senza fare scena. Il barone Lamberto, che scopre il valore di essere nominato, cioè riconosciuto, da chi sta in basso. Tutti loro rompono lo schema. Non rendono il potere innocente, ma lo usano per creare giustizia, non per affermare superiorità. È qui che il racconto cambia passo: non più il ricco da odiare, ma il potente che finalmente ascolta.
Gli occhi di Lucia

Abbiamo citato all’inizio la leggenda popolare di Santa Lucia, in cui una giovane si cava gli occhi per sfuggire al desiderio di un potente. Ora ne proponiamo una versione riscritta: senza martirio, senza santi, ma con personaggi vivi, imperfetti, capaci di cambiare.
Si racconta che una volta, in un borgo ai piedi di una fortezza, vivesse una ragazza di nome Lucia.
Aveva occhi chiarissimi, fermi, che nessuno riusciva a sostenere troppo a lungo.
Ne andava fiera. Li usava per farsi rispettare, per gelare chi tentava di avvicinarsi.
«Io non mi sposo» diceva. «Ho promesso i miei occhi a Dio.»
Ma nessuno gliel’aveva chiesto. Nessuno l’aveva mai guardata davvero.
Un giorno arrivò in paese un signore vedovo, uomo ricco, serio, non più giovane.
La vide mentre lavava le mani nella vasca del lavatoio, sola, all’ombra.
Le rivolse la parola. Lucia rispose in modo duro, come faceva con tutti.
Ma lui non si offese.
Non cercò di piacerle.
Il giorno dopo passò di nuovo per quella via. E quello dopo ancora.
Camminava, si fermava a osservare il lavoro dei campi, annuiva ai bambini.
Niente domande. Niente offerte.
Col tempo, Lucia cominciò a notarlo con la coda dell’occhio.
Una sera, mentre sbucciava fave, gli disse:
«Voi non cercate di comprarmi?»
Lui sorrise: «Non si compra ciò che non si capisce.»
Lucia allora cominciò a metterlo alla prova.
Lo sfidava con risposte taglienti, lo ignorava quando le parlava, rideva forte apposta se passava accanto.
Ma lui non cambiava.
Continuava a starle vicino senza invaderla, come fa chi ha perso tutto e non ha più fretta di vincere.
Lucia cominciò a sentirsi nuda.
Non riusciva più a ferirlo.
Un giorno, mentre raccoglieva l’acqua, abbassò gli occhi.
Capì che tutta la durezza che si era cucita addosso non era voto. Era vergogna. E paura di non essere scelta.
La notte stessa lasciò il paese.
Andò in convento, senza avvisare nessuno.
Restò tre inverni, a filare lana e stare zitta.
Poi tornò.
Non portava il velo. Non alzava la voce.
Camminava con passi pieni, come chi ha fatto pace con le spine.
Trovò il signore seduto sotto il portico della chiesa, intento a scaldare le mani a un bambino.
Lucia si fermò davanti a lui.
Lo guardò in faccia, senza piegarsi.
E disse solo:
«Questi occhi non sono di Dio. Sono miei. Ora, se volete, potete guardarli.»
Oltre gli occhi
Abbiamo cominciato chiedendoci perché il ricco è sempre il cattivo.
Abbiamo smontato lo schema, riscritto la leggenda di Lucia, e raccontato una storia dove il potere non opprime e la libertà non si sacrifica.
Ora tocca a te.
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Perché cambiare il finale… si può.